Laboratorio di danza antica
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Dell' Harmonia suave il dolce canto
per laudito passa dentro al cuore,
di gran dolcezza nasce un vivo ardore
di cui il danzar poi vien, che piace tanto 

Con questi versi Guglielmo Ebreo da Pesaro introduceva, nel 1463, il suo De practica seu arte tripudi vulgare opusculum, uno tra i primi trattati italiani sulla danza. Siamo nel '400, ormai quasi al tramonto di quel lungo e contrastato periodo storico comunemente noto come Evo Medio, durante il quale i riferimenti alla pratica del danzare, seppur relativamente numerosi, sono sempre indiretti, provenienti cioè da fonti letterarie o iconografiche.
Ma sappiamo bene che la danza, sia nella sua veste rituale che più semplicemente vissuta come gioiosa liberazione della vitalità umana, è da sempre - molto più che nella società a noi contemporanea - presente nella realtà sociale dell'antichità e del medioevo non come universo separato ma come una prassi irrinunciabile che permea ogni momento significativo della vita individuale e collettiva.
Si basa su questa certezza il desiderio di riaccostarsi allo spirito ed ai passi delle nove fanciulle che il Lorenzetti fa danzare a Siena nel Buongoverno oppure di ricercare la grazia con la quale Giovanni Boccaccio nella seconda novella dell'ottava giornata del Decameron fa ballare la ridda a Monna Belcolore o di interpretare le musiche e le danze organizzate da Sollazzo presso l'immaginaria corte di Pierbaldo, signore di Buongoverno nel Liber Saporecti di Simone Prudenzani.